Martin Zimmerman il coreografo e Dimitri de Perrot il compositore, entrambi in grado già di avvolgersi su se stessi, svanire nel nulla e creare con le loro molteplici abilità circensi abbondanti fantasie, si circondano di cinque loro simili, creature/creazioni il cui punto di partenza è ciò che non può essere visto in un primo momento, ma che appare quando l'attenzione cala.
La Fondazione Campania dei Festival, fra la prima e la seconda parte dell'edizione 2012 del Teatro Festival, ed in occasione del concomitante World Urban Forum 2012, ha presentato al Teatro Mercadante la performance surreale Hans was Heiri.
Hans was Heiri, ovvero John era Henry: nella drammaturgia di Sabine Geistlich, Z&dP cercano cosa distingue e cosa rende simili gli uomini e le cose, ne deformano l'apparenza e soprattutto giocano con il senso del riferimento comune.
Ma anzitutto, con il loro teatro corporeo, si uniscono ad elementi come il legno, che esalta l'idealità della mano dell'uomo che ne sa modellare le forme, e ne rivelano i segreti, come se stessero perennemente in quel loro laboratorio ricavato in una ex fabbrica di Zurigo, che sul palcoscenico trovano casa nell'ambientazione delle costruzioni di Ingo Groher e Christiane Voth.
E soprattutto, con i movimenti incastonati nel movimento più grande delle quattro stanze che girano roteando, mescolando corpi e situazioni, dimostrano che non intendono, come potrebbe sembrare, sottrarsi alla gravita, no: loro vogliono piuttosto impadronirsene, modellandone le alternanze sulle loro abilità, danzando intorno alle geometrie come se fosse un'unica, decisa presa di distanza dalla realtà. Oppure una sua trasfigurazione.
Il percorso è interamente accompagnato dalla campionatura eseguita dal vivo di musica e suoni, e gli elementi sfruttano anche il contrasto di luci che tenta di conferire l'effetto di nascondere spesso la presenza degli attori nel buio (ma questo è riuscito male, giudizio che rimane sospeso e sospettoso di problemi tecnici contingenti non risolti).
Gli equilibri, la grande coordinazione e lo sfruttamento di forme apparentemente simmetriche, ma in realtà decisamente eccentriche, la giocoleria ed un linguaggio scenico poco qualificabile se non evocando magari uno sfottò concettuale di Marcel Duchamp, restano il maggiore risultato.
Si sente il progetto scorrere partendo da un suono che è come un cane da guardia di un mini-mondo di cinque persone che ruotano intorno a sé stesse e che sovrappongono il loro stesso senso, perché come dicono loro, “ci prendiamo tutti molto sul serio, ma non prendiamo niente sul serio”.
Fra le scene riprodotte con un certo insistito accento narrativo, va ricordata la seduta yoga dalla spiccata memoria alternata fra gli anni 60 e 90, intervallata da un'acrobazia leggerissima come è quella eseguita sulle note di “Calling You” di Jevetta Steele, tirando nel vortice su con se l'altro nell'aria a fluttuare, e quindi il finale, che si immerge di nuovo in piena Age of Acquarius.
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